Pensieri al Volo

Volontarius Onlus, Bolzano

È morta. Elisabeth Fischnaller aveva 46 anni.

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Il 15 maggio 2014 ci ha lasciati Elisabeth Fischnaller. In molti nemmeno sapevano si chiamasse così. Se si domandasse alla cittadinanza da quanto tempo soggiornava sotto ponte Talvera, sul lato di piazza Vittoria, probabilmente la risposta più frequente sarebbe “da tanto tempo”; giornali e il sottoscritto devono quindi attenersi a un triste “più di dieci anni“.

Aveva 46 anni ma il volto era solcato da una vecchiaia arrivata in anticipo. La sua è una storia che si scopre a pezzi, come componendo un immenso puzzle di violenze, ingiustizie, paure cariche di sentimenti. L’immagine che ne emerge è quella di una donna grossa, con gli occhi chiari e gonfi, i capelli unti, le mani lerce e la saliva, che aveva bisogno di buttare via da sè, al di là del letto, sul terreno dove immondizia e cianfrusaglie erano dimora per i topi.

Elisabeth è morta e ha lasciato dietro di sè un vuoto indescrivibile. Il letto, il quadro che poggiava lì vicino e raffigurava una sorta di clown magro dai colori vivi, sono subito spariti. Sono rimaste solo delle candele e dei fiori, saluti lasciati da chi non si rassegna e non dimentica. Perché Elisabeth non era una donna sola come in molti la dipingono; accanto a lei erano in tanti che si fermavano per il piacere di una chiacchierata, con qualcosa da mangiare e qualche esortazione a migliorare la propria condizione di vita. Rapporti umani veri perché senza vincoli e senza pretese. L’unica solitudine che Elisabeth viveva, era quella con se stessa. Non sapeva ascoltarsi, accettarsi, guardarsi dentro. Non a tutti ha raccontato la sua storia. Con me aveva inventato un improbabile marito che stava venendo a prenderla e quattro dolci figli piccoli a casa che l’aspettavano.

Questa debolezza l’ha uccisa. I medici parlano di un normale attacco cardiaco, ma non è solo questo. Elisabeth è stata uccisa dall’indifferenza della nostra società. Scoria di un’industria sociale, relitto tenuto in vita attraverso un’eutanasia di sensi di colpa, Elisabeth Fischnaller l’abbiamo uccisa noi con la nostra cecità, con il nostro essere egoisti e senza saperlo ingombranti, con la nostra “comunità” piena di contraddizioni che si sfogano sulle persone deboli.

Le responsabilità delle persone che vivono sulla strada, in condizioni di miseria, sono anche nostre. È una menzogna affermare che Elisabeth non avesse niente. L’unica cosa che le mancava era la forza per cambiare se stessa e abbandonare il passato. Siamo noi che preferiamo, per comodità e per non sentirci colpevoli, scaricare la colpa alla compassione, nascondendo il volto oscuro della società assassina cui appartieniamo. Perché la storia di Elisabeth è soltanto il microcosmo delle problematiche che governano il macrocosmo del mondo. Mondo di cui siamo pure soliti lamentarci.

Mi piacerebbe che il letto e il quadro di Elisabeth, portati via così presto per dimenticare, perché pensare troppo fa male, tornassero a respirare l’aria che hanno respirato fino ad oggi. Vorrei potessero offrire un’occasione di riflessione e magari un giaciglio per chi ne ha bisogno.

Personalmente non so se ho fatto tutto giusto, ma da Elisabeth, che ho conosciuto e frequentato, sono sempre stato accolto e ascoltato, anche quando mi rifiutavo di comprarle le sigarette e lei mi teneva il muso per intenerirmi (mi conosceva bene), anche quando la rimproveravo perché non aveva nulla da raccontarmi; “Inventiamo!” le dicevo, ma non mi seguiva mai). Insieme abbiamo parlato, riso, anche litigato e ci siamo più volte commossi. Spesso i nostri dialoghi consistevano in lunghi e silenziosi sguardi. Altro non era necessario. Non posso dire fosse un’amica, però era una grande compagna. Piuttosto non posso accettare, ora, che tutto svanisca nell’ipocrisia di termini che annunciano la scomparsa di una “barbona” o di una “clochard”. Lei si chiama Elisabeth e aveva 46 anni. Lei si chiama Elisabeth e mi manca. Lei si chiama Elisabeth ed è morta dopo aver vissuto per anni nella miseria. Questo è quello che deve interessare la sua comunità sorella. I barboni non esistono, i clochard ancor meno. Esistono gli uomini e gli uomini, se non sono tutti uguali, sono comunque tutti uomini. Mi piacerebbe che non lo dimenticassimo e uscissimo da questa ipocrisia fredda e appiccicosa nella quale il nostro sentire si è, spero non irrimediabilmente, impantanato.

Autore: Luca De Marchi

Classe '95, studia lettere all’università di Trento e collabora da diverso tempo con Volontarius nel raccontare la vita dell’associazione e quella delle persone che, ai margini della società, spesso vengono ignorate; ne porta inoltre testimonianza alla società attraverso i media e gli incontri con i ragazzi nelle scuole e in altri gruppi.

Un commento

  1. In ogni uomo c’è un potenziale clochard, ogni clochard è stato, è , e continuerà ad essere un uomo..

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