Avevamo paura di trovarci in stazione e finire come sempre a distribuire pasti e qualche parola. In gioco era il nostro rapporto con la gente del camper. Dopo diverse riunioni di organizzazione, sabato 12 aprile – sotto una debole pioggia e una giacca che non capisco se mettermi o togliermi – allestiamo il parco della stazione per la festa.
È così che inizia il pomeriggio: cantando e battendo le mani sulla coscia al ritmo di una chitarra. Mi siedo accanto a nomi che non ricordo perché, distratto, le sere al camper non li ho memorizzati. Mangio e rido. Mi viene spontaneo, ho voglia di essere socievole perché sento tutti vicini come in servizio non mi è mai capitato. Un pranzo di famiglia. Non esiste il tempo, non esiste identità: siamo tutti parte dello stesso io che è la condizione umana.
Avevamo paura di trovarci in stazione e finire come sempre a distribuire pasti e qualche parola. (…) Mi siedo accanto a nomi che non ricordo perché, distratto, le sere al camper non li ho memorizzati. Mangio e rido. Mi viene spontaneo, ho voglia di essere socievole perché sento tutti vicini come in servizio non mi è mai capitato.
Abbraccio tutti, sento gli altri intorno a me ridere e capisco che in molti provano quello che provo io. C’è chi ad ogni modo rimane in disparte. Poco importa, si ascolta anche il silenzio. Oggi il fiato dei problemi lo usiamo per gonfiare palloncini.
Per tre quarti d’ora T. Mi parla delle sue novità. A. invece non vuole fermarsi perché è stanco (poi quando trova qualcuno con cui parlare si ferma per l’ora successiva). M. ha letto una poesia e una ragazza si è emozionata. Giochiamo a carte e un tipo con il sigaro in bocca se la ride perché continua a vincere. Poi a un certo punto un giovane studente si mette a ballare breakdance. Lo seguiamo con movimenti più o meno azzardati, finché un tale non si esibisce in un ballo sensuale che non ho ancora capito che ballo fosse ma che ho adorato.
Velocemente arriva la sera. Qualcuno mi scoppia i palloncini vicino alle orecchie per spaventarmi. Rido, ma sento anche che l’aria con la quale sono stati gonfiati si sta ora liberando nell’atmosfera. Fra poco è ora di cena, poi ci si disperde e, forse, si va a dormire. È tutto di nuovo uguale, anche se per qualche ora è sembrato tutto diverso. O forse è sempre stata una falsa impressione.
C’è chi ad ogni modo rimane in disparte. Poco importa, si ascolta anche il silenzio. Oggi il fiato dei problemi lo usiamo per gonfiare palloncini.
Penso che non possiamo essere amici. L’amicizia è un sentimento ben preciso e non è quello che sento per la gente del camper. La gente del camper per me è qualcos’altro, un’amicizia con un altro senso del termine ma che non perde nulla del primo, anzi si ricolma di unicità e tanta, tanta voglia di conoscere. Come potrei chiamarli? Fratelli? Quello che ho provato sabato non lo potrei provare se non con le persone che ho incontrato sabato. Li chiamerei compagni.
Penso che non possiamo essere amici. L’amicizia è un sentimento ben preciso e non è quello che sento per la gente del camper. (…) Li chiamerei compagni.
Poco importa dei problemi, siamo umani e li abbiamo tutti. Vale la pena, quando è possibile, lasciare da parte ogni pensiero pedagogico per godersi l’immensa varietà della vita. Siamo noi l’importante, a ogni livello di vita, in ogni condizione siamo noi che con la nostra fragilità possiamo riconoscere nella serenità dello stare insieme una vera condizione di pace. Abbiamo tanto da imparare, liberi dai pensieri e dalle contraddizioni, per vivere e viverci semplicemente vivendo.