Sono passati due mesi da quando Elisabeth ci ha lasciati. Il giaciglio in cui ormai da tempo trascorreva una vita custodita da un letto lercio esiste ancora. Non c’è più il letto ma sono rimasti i due grossi sassi davanti, qualche fiore ormai appassito in compagnia delle candele che ogni tanto tornano accese. Un pensiero, un ricordo che si rigenera nel silenzio dell’oblio al quale siamo condannati.
Non è bastata e non basterà la commiserazione a oltrepassare la morte di una donna che per più di dieci anni ha vissuto sulla strada. La commiserazione è un sentimento normale e spontaneo, ma in certi casi diventa barriera che nasconde le nostre paure, i nostri sensi di colpa rispetto alle responsabilità che dovremmo provare. E queste paure si trasformano in un distaccato impietosimento che degenera in un inconscio senso di superiorità; in realtà protezione dal terrore del diverso.
La vita di Elisabeth Fischnaller non è una responsabilità solo del Comune, né solo delle associazioni che la seguono. È una responsabilità di tutta la comunità, perché significa che il nostro vivere è pieno di una sudicia e polverosa ipocrisia che permette che alcune persone finiscano per vivere in condizioni di vita indegne. Non faccio differenza e anzi sono il primo ad ammettere di farne parte, sia chiaro, ma è appunto di questo che abbiamo bisogno per cambiare: renderci conto delle nostre colpe e assumerci le nostre responsabilità. Responsabilità che vanno oltre la pietà e la commiserazione per macchiarsi del fango e del terriccio della vita concreta: quella che sa di umidità e puzza di umano, che si regge sul disordine, sull’ingiustizia e sui compromessi.
Perché non impariamo a chiederci cosa significa vivere in una comunità?
Responsabilità che vanno oltre la pietà e la commiserazione per macchiarsi del fango e del terriccio della vita concreta: quella che sa di umidità e puzza di umano, che si regge sul disordine, sull’ingiustizia e sui compromessi.
I casi di storie come quella di Elisabeth sono casi da individuare all’origine, quando il problema non è vincolato dalle pesanti coperte di un letto radicato nel terreno. E a intervenire non devono essere solo gli operatori sociali, ma è la cittadinanza a dover essere in grado di prevenire affinché le situazioni non degenerino. Come? Riuscendo a trasformare la commiserazione e la pietà in compassione: dal latino “cum-patere”, sentire con; avere cioè passione per. Ecco che allora la nostra attenzione per chi ci sta accanto, anche solo per strada, diventerà attiva e concreta, pronta a cogliere situazioni e atteggiamenti da affrontare appunto con passione e autentica presenza.