Mi è capitato, un giorno di questi (pochi) anni, di entrare in una classe e di essere fermato da un ragazzo. «Si può fuggire per qualcosa che si ha dentro?» mi ha chiesto. Quando sono uscito da scuola, avevo un nodo in gola. L’ho presto dimenticato, come si dimenticano quelle cose importanti e che ci fanno paura e preferiamo rimandare invece di affrontare.
Come succede sempre con le cose importanti della vita, è successo che quel nodo è tornato. Una ragazza mi ha fermato e mi ha chiesto: «Mio zio ha lasciato l’Italia perché è gay. È un profugo?».
Due innocenti domande stavano scuotendo gli schemi che mi ero costruito col tempo. Entravo in classe a parlare di migrazioni e di persone senza fissa dimora, ma quello che i ragazzi mi chiedevano non era solo di conoscere quei concetti, ma di viverli per farli propri. Solo che è più facile parlare di migranti e senza tetto che parlare di cosa significa avere le radici in un paese e avvertire la propria “dimora” nella vita quotidiana.
Spesso gli insegnanti vivono una quotidianità fatta di impegni, scadenze, ansie e compromessi che impediscono loro di fermarsi e riflettere sui reali bisogni dei loro studenti. Eppure tutti gli esseri umani hanno bisogno di dare un nome preciso a quello che vivono, tutti noi abbiamo sete di conferme e di fiducia, di sentirci meno soli e di superare l’ansia da prestazione, la paura di sbagliare, le battaglie della nostra esistenza; tutti noi vorremmo dare un nome alle diverse fasi dell’amore e alle diverse fasi della nostra vita, con le sue sfide e i cambiamenti che la stravolgono.
Entravo in classe a parlare di migrazioni e di persone senza fissa dimora, ma quello che i ragazzi mi chiedevano non era solo di conoscere quei concetti, ma di viverli per farli propri.
Questo interrogarci è ciò che ci rende autentici e vicini al sentire dei giovani che, quindi, possono aiutarci in questo cammino di consapevolezza. In loro ho percepito entusiasmo verso ciò che è nuovo, il desiderio di alzarsi in piedi, di usare la propria voce per farsi sentire; ho trovato anche paure, domande, dubbi e il bisogno di comprendere il complesso mondo che ci circonda.
Farsi le domande giuste significa essere autentici e onesti con se stessi ed essere persone autentiche è la cosa più difficile, ma bella, che può succedere in un percorso di vita. Concepirlo mentalmente è fattibile, ma farlo con mente e animo significa confrontarsi con la possibilità di scoprirsi diversi da come ci si dipingeva e di dirsi «Ho sbagliato. Il mondo non è quello che credevo».
Il dolore che ne deriva è una condizione umana e non ha tempo, vive indipendente da noi, che possiamo solo decidere se e come affrontarlo, diventando protagonisti della nostra vita. Una sola cosa non possiamo fare: scappare da noi stessi per essere quello che non siamo, o adeguarci a quello che sono gli altri per nasconderci.
Farsi le domande giuste significa essere autentici e onesti con se stessi ed essere persone autentiche è la cosa più difficile, ma bella, che può succedere in un percorso di vita.
Mi rendo conto che gli insegnanti, le persone, il mondo non sono pronti ai massimi sistemi e a lavorare su se stessi. Preferiscono lavorare sui “temi”, sulle emergenze, sulle strategie, sulle gerarchie, sui soldi. Intorno a me oggi percepisco odio, paura e rivalità, poca autenticità e poco amore. Le parole vengono usate come mezzo strategico, non come fine per comprendere l’altro e il mondo cerca così di metterci gli uni contro gli altri.
I ragazzi che ho incontrato mi hanno chiesto altro. Mi hanno chiesto onestà, ascolto e comprensione.
Il percorso verso ciò che è Giusto, cioè verso se stessi, è silenzioso e non facile. Lo sa chi dà ogni giorno il massimo per prendersi cura degli altri. Lo sa chi spesso va incontro a delusioni e, nell’indifferenza di tutti, ogni giorno combatte battaglie più grandi di lui. La verità, in fondo, è una ed è tanto semplice quanto devastante: quello là fuori è un mondo molto più complesso di quello che ci vogliono far credere. Ma oggi, purtroppo, sembriamo andare nella direzione opposta.