Questo discorso generale – e limitato – nasce a partire da una domanda: come reagire alle intemperie del nostro tempo? Nella storia di risposte ce ne sono state tante: reazioni indignate, violente, pacifiste. Oggi, nel ventunesimo secolo, siamo a un punto cruciale della storia. Da una parte siamo tutti più consapevoli, conosciamo il nostro passato, studiamo, siamo in grado di riflettere con pensiero critico; dall’altra parte però ci troviamo nella stessa situazione in cui l’umanità si è già spesso trovata. Non sappiamo dove sbattere la testa perché, nonostante la nostra crescita, tra di noi sono rimasti malessere, ingiustizia e inuguaglianza.
Allora viene da chiedersi: ha senso continuare a indignarsi se tutto tornerà come prima? Non ha più senso criticare, magari ad alta voce, come se l’importanza delle parole crescesse al crescere del tono col quale vengono pronunciate. È quello che abbiamo fatto per secoli e in tutti questi secoli non siamo cresciuti. Sono cambiati macchinari, abbiamo vissuto diversi tipi di progresso. Ma noi no, siamo rimasti praticamente uguali a prima, nonostante le opportunità di cambiare ci siano state e continuino a esserci. Adesso è il momento di cambiare modo di fare. Basta voci, lasciamo andare i silenzi, le sensazioni.
L’era postmoderna che stiamo vivendo è caratterizzata dall’interiorità, un’interiorità ingombrante e violenta che ha messo da parte ogni possibilità di condivisione. Una tale introspezione non era molto comune fino a due secoli fa; credo sia stata introdotta, o comunque rimarcata, da internet. Internet sarebbe stata una grossa opportunità per l’umanità intera (e la è ancora), ma invece di diventare strumento di unione sincera e condivisa, è diventato centro commerciale di prodotti egocentrici deleteri per noi stessi e per gli altri.
Qualche tempo fa, su Facebook, una conoscente ha pubblicato in brevi righe un suo pensiero rispetto all’immigrazione. Praticamente dichiarava con toni infastiditi che gli immigrati che si lamentano dell’Italia possono anche tornarsene a casa. Trascurando la banalità di una simile affermazione individualista e resa allo stesso tempo pubblica, vorrei sottolineare come diverse persone abbiano manifestato comunque condivisione rispetto al contenuto del messaggio, qualcuno addirittura dichiarando che la vita da immigrato è piena di privilegi economici – e augurandosi esplicitamente di provarla. Di fronte a tanta ignoranza mi sento schiacciato, perché capisco che anche internet, pur permettendo condivisione e unione, quando emerge un qualsiasi scandalo, si riempie di polemiche e di persone indignate, di diversità e di rancore, di impulsi, egoismi che io tradurrei in… solitudine.
È la solitudine a renderci così, non trovo altra soluzione. È la nostra incapacità, nonostante i secoli, a guardare in faccia i nostri simili – vicini o lontani, simpatici o antipatici – e a cercare nei loro occhi il nostro sguardo e nel nostro sguardo i loro occhi. Non so se sia mai stato un senso dell’uomo, ma sicuramente ce l’abbiamo: la possibilità di percepire la vicinanza dell’altro e di stringerla a noi per accogliere e per sentirci accolti. Più rifletto su queste tematiche, più finisco per credere che queste non sono caratteristiche innate nell’uomo, ma competenze che lui può coltivare con convinzione, esercizio e pazienza, coinvolgendo percezione e linguaggio. Un sacrificio che cambia la vita.
Non devono per forza entrare in gioco religioni o filosofie, ma il proprio modo di sentire. La vita è fatta di compromessi, comportamenti sbagliati, gesti profondi e pensieri, tanti pensieri. Non possiamo nascondere o lasciare indietro nulla di ciò che ci caratterizza, perché fa parte della nostra identità. È nostro dovere prendere coscienza del nostro essere e dell’essere degli altri; e così facendo accompagnarci a vicenda su questo cammino scomodo, difficile, faticoso, ma che insieme vale la pena di provare a percorrere.