“Come giornalista, non voglio mischiare la professionalità alle emozioni che provo, ma non so se ce la farò, questo è un tema che mi tocca troppo”.
Esordisce così Sebhat Ayele giovedì 15 ottobre nella sala del centro pastorale di piazza Duomo 1, a Bolzano. Fuggire per non morire è il tema della serata. Padre Sebhat ha gesti ampi e la voce che oscilla lasciando trasparire diversi sentimenti: rabbia, voglia di cambiare e di far chiarezza, forse anche a se stesso. Si sa che a certe situazioni è facile abituarsi e purtroppo le dittature e le ingiustizie sociali sono alcune di queste. Padre Sebhat si rifiuta di dimenticare e anzi vuole svegliare un’Europa malinformata per ricordarle che cambiare si può: la mala politica, la corruzione, la distinzione tra ricchi e poveri, tra privilegiati e meno fortunati si possono combattere.
Era ancora il 2004 quando all’Agenzia dei missionari comboniani (Misna) padre Sebhat accusò i ribelli dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra) di aver sfruttato un centinaio di persone, tra le quali ragazzi non ancora adolescenti, per fare strage di duecento persone in Uganda: “Ho visto un numero impressionante di morti” aveva detto “Non ho parole per descrivere quello che ho visto a Barlonyo”.
Eppure, di parole, ne ha molte. Padre Sebhat è un missionario comboniano di origine eritrea e profugo in Uganda. Ha girato diversi paesi dell’Africa ma oggi vive a Kampala dove è responsabile dei profughi eritrei e direttore di “Leadership”, una rivista di stampo cattolico. Un profugo che aiuta i profughi, come tante altre persone. Ce ne sono davvero tante e alcune le incontriamo tutti i giorni anche a Bolzano.
Padre Sebhat tiene a precisare che lui non ha una visione solo umana dei temi dei quali parla, ma anche spirituale e cristiana. “Anche Gesù è stato un profugo” afferma sulle orme di recenti parole di Papa Francesco. Nonostante l’italiano non sia la sua lingua madre, la parla in maniera disinvolta. Anzi a un certo punto afferma che bisognerebbe fare attenzione alle parole che si usano, perché determinano il nostro modo di pensare. Per esempio, chi sono i profughi?
I profughi rifugiati sono persone vittime di conflitti che vedono la propria libertà e la propria vita messe in pericolo e che fuggono varcando i confini internazionali.
Un caso esemplare è quello dell’Eritrea, dove una feroce dittatura sta mettendo in fuga tantissime persone.
In paesi come il Congo però sono più le persone che fuggono senza varcare i confini internazionali: si parla allora di sfollati interni.
“Per essere sincero” padre Sebhat aggiunge che esiste la possibilità che le persone fuggano dai loro paesi per uno stile di vita, per un’attrazione portata da parenti e amici fuori dal pese. Non si può nascondere anche questo rischio.
Ad ogni modo secondo IDPs i rifugiati sono 60 milioni e provengono soprattutto da Siria, Eritrea, Somalia e Afghanistan; 38 milioni invece sono gli sfollati interni. Questo è un esempio di uso corretto e responsabile delle parole e dell’informazione.
Le persone che fuggono lasciano dietro di sé situazioni di malgoverno, dittatura e oppressione, paesi in cui i soldi sono nelle mani di pochi e le risorse non sono equamente distribuite, in cui la corruzione è la norma e il divario tra ricchi e poveri è enorme. In una tabella padre Sebhat mostra i conti bancari di molti dittatori africani nelle banche svizzere: salta all’occhio Gheddafi che, per esempio, aveva 424.6 milioni di dollari. “L’Africa ha 163.000 milionari, solo a Johannesberg sono in 23.400″, aggiunge padre Sebhat con un piglio autocritico “Come facciamo a giustificare questo?” domanda più a se stesso che al pubblico.
Da una parte per padre Sebhat è chiaro che i problemi dell’Africa andrebbero risolti alla radice e all’interno della società, incentivando quindi anche il lavoro dei missionari. L’Africa vive infatti di un’economia florida per l’agricoltura e per la presenza di minerali, oltre a una potenziale presenza turistica non indifferente. Dall’altra parte però sono “l’Occidente e la Cina” che dovrebbero iniziare a interessarsi alla gente comune, senza appoggiare le dittature come hanno fatto e stanno facendo.
Tuttavia è fondamentale il ruolo che la società europea sta portando avanti e padre Sebhat ringrazia Bolzano di questo. Non tanto per assistere le persone che transitano con cibo, acqua, vestiti e coperte, ma per restituire loro con le parole e con il corpo la dignità di sentirsi esseri umani. E’ fondamentale sforzarsi di ascoltare e accogliere le singole storie di ognuno, capendo le situazioni e dando un importante appoggio morale.
“Ci sono momenti in cui mi sono arrabbiato con Dio.” confessa padre Sebhat chiudendo il suo discorso, “Dove sei, Dio? chiedevo. Poi gli ho chiesto scusa”. Si commuove e chiede scusa anche al pubblico che però non lo ascolta già più come giornalista, ma come essere umano.