Poggio sul duro cuscino. E da qui guardo la solita strada. Qualcuno passa, qualcuno corre, qualcuno in bicicletta muove l’aria che respiro. È autunno, è estate, è il sole, poi viene la luna. E ci sono la neve, le chiome, il vento violento e il vento più lieve, quello che coglie il prato e lo bagna di una luce nuova, di timida primavera.
Io sto ferma a osservare il tempo che scorre più lento del fiume, mentre nel suo scorrere si immerge il mio pensiero, nel tentativo di scendere e dimenticarsi. Tremo. Fa freddo. Forse devo pisciare ma più insisto, più spingo, più non capisco se a uscire è il mio bisogno o il gelo che ho dentro. Sono grossa, come sono grossa, a volte mi sembra di sgonfiarmi, ma poi rieccomi a galleggiare sui pensieri più nascosti… se tutto questo non fosse vero, forse non è vero, forse è tutta una finzione. A volte me ne convinco nelle spesse coperte che fin troppo hanno pesato sulla mia esistenza, come radici di piante carnivore che conservano la loro preda.
Di chi siamo prede? Io ho l’unica colpa di aver capito, di essere andata al di là del pensiero. Come tante prima di me, io so. A volte nascondo il mio sapere, cerco io stessa di schiacciarlo sotto zavorre artificiali. Ma che siano vere, che mi facciano credere che esiste la possibilità che io non sappia, che io mi spenga. Io non penso. Ed è l’apatia. I vegetali sono la consistenza più numerosa del pianeta. Assorbono. E assorbo io dal loro insegnamento.
Io sto ferma a osservare il tempo che scorre più lento del fiume, mentre nel suo scorrere si immerge il mio pensiero, nel tentativo di scendere e dimenticarsi.
Mi sveglio alla mattina da una veglia durata un decennio, gioco con gli occhi. Li sposto più in qua, più in là, cerco di guardare il paesaggio là dove è coperto dal ponte, ma ogni volta perdo; sdraiata non lo vedo. Chissà se è cambiato. Non ci penso. Mi accendo una sigaretta; è l’unico piacere fisico che posso ancora provare, una tregua di qualche minuto. Tiro dentro tutti i misteri che non ho ancora risolto e li lascio penetrare in quelli che erano i miei organi, che sono oggi la mia vita. Perché non esisto, oltre il fumo di questa sigaretta, che non sarà mai l’ultima. Mi tiene in vita come una medicina tiene in vita il malato.
A volte, anzi spesso, quando vedo che le sigarette finiscono in fretta, mi fermo. Devo calcolare bene i giorni. Ma perché invece non mi lascio andare? Non ho più le parole, quelle che mi servono per capire come devo ragionare per uscire da questo vortice monotono in cui mi ritrovo. Ma in cui in fondo sto bene. Almeno finché non finiscono le sigarette, così per fermarmi comincio a giocare con la saliva. La lavoro in bocca, poi la sputo. È strano, è diventato quasi un tic nervoso. Non nervoso, ma abituale. Lo faccio anche se a volte la striscia di saliva rimane a inumidirmi il mento. Non è facile sputare, lo sanno i ragazzi che ci fanno le gare.
Pochi giorni fa, forse ieri, sono venuti dei ragazzi; era notte, mi hanno svegliata e mi hanno disturbata. Non ricordo cos’hanno detto, ma le voci erano incisive. Ho lasciato correre, ma non saprei dire se stessi soffrendo. Ho lasciato correre e basta, mi sono spenta. È una capacità che ho scoperto di avere. Oggi ho accennato l’evento a un mio amico, un uomo che viene sempre con il suo cane. Mi ha portato un po’ di compagnia; amo guardare il cane giocarmi davanti. Mi fa sentire partecipe, per pochi attimi, della sua spensieratezza. Poi quando i due vanno via, ecco ritorna la zavorra del tempo che non passa.
Se penso a quando stavo in piedi… come è peggiorata la mia salute. Sto male, ho le mani e la faccia gonfie, ho mal di stomaco e non riesco a dar di corpo come si deve. Quale sarà il mio aspetto? È tanto tempo che non mi guardo a uno specchio. Non voglio chiederlo, e nessuno ha mai pensato di portarmelo. Sento in me il sudiciume. Quando è inverno accendo una candela per il freddo, quando c’è luce invece comincio a vedere intorno a me il paesaggio, sudicio anche lui. Sapere che intorno a me si muovono i topi, non mi fa stare bene. Non ci voglio pensare.
Un ragazzo che mi porta da mangiare e viene a farmi visita mi ha portato una corona d’avvento. Vorrei durasse fino a dopo Natale, perché farà freddo e a lui sicuramente non salterà in testa di portarmene un’altra, ma non ci ho pensato e l’ho consumata tutta: non c’è più traccia di cera. L’ho buttata nel marasma di oggetti, palloni, lattine, mozziconi, ciabatte, stampelle, bottiglie, cartacce, che a volte la signora del bar qui vicino viene a riordinare. Non senza qualche rimprovero.
Perché poi ci sono le persone che si fermano, quelle che mi salutano e vogliono parlare, anche se qualche volta si arrabbiano perché non ho la forza di essere come loro. Ma è questo il punto: loro credono forse che io sia come loro? Io non sono loro. Io sono un’altra, io sono Elisabeth.
Il ragazzo a volte esagera. È molto carino e cordiale, ma mi fa soffrire. Due volte è successo che si arrabbiasse e io non sapevo che cosa dirgli, quello arrabbiato era lui, il mondo che credeva fosse giusto era il suo e annientava a priori il mio. Anche se forse ha ragione.
Però esisto, quindi ho ragione anch’io, ho un senso dopotutto.
Perché poi ci sono le persone che si fermano, quelle che mi salutano e vogliono parlare, anche se qualche volta si arrabbiano perché non ho la forza di essere come loro. Ma è questo il punto: loro credono forse che io sia come loro? Io non sono loro. Io sono un’altra, io sono Elisabeth.
Capitano dei giorni nei quali ho tante visite, addirittura tre, quattro. Mi portano da mangiare, ho fame, tanta fame. A volte chiedo io di andare a prendermi un hambruger al baracchino di sopra. Insieme a un pacchetto di sigarette. Pago io, che i soldi li ricevo. In questi momenti mi sento come in un sottoscala. Nascosta ma tenuta in vita. A volte, ma sempre più di rado, il pensiero mi entusiasma: mi sento protetta da tutto e da tutti, io sono qua, nell’ombra e ci rimarrò indisturbata per sempre. Altre volte invece riemerge il dolore del mio passato e lo schiaccio sotto la mole delle esortazioni a non pensare, non pensare, che pensare mi fa male.
Io in fondo so chi sono, cosa faccio e perché lo faccio, ma lo nascondo. Hanno provato a tirarmi fuori di qui, ma invano. È diventato il mio obiettivo, restare qui, vivere qui fino all’ultimo: freddo o caldo che sia. Perché io sogno, una sera, di riuscire ad addormentarmi, dopo aver ingurgitato un piatto di zuppa bollente e un frutto. E da lì, sogno di partire, partire e andare lontano, lontano verso chi mi acclamerà dicendomi: «hai vinto!» e «ce l’hai fatta!». E da lì non svegliarmi più.