Un ragazzo una volta mi ha detto: «Non ne posso più di sentirmi dire che sono un “volontario”. Io sono fatto così e basta!». E non c’è affermazione più condivisibile. Ma cosa significa aiutare?
Lavorare nel sociale, sia come operatori sia come volontari, non è facile: è un ambiente complesso e stancante da gestire. Lavorare di continuo con le persone può anche farci dimenticare cosa significa e cosa comporta. Alle volte è normale sentire da un operatore frasi come «Sono molto stressato» e «Non è un lavoro che mi gratifica»; così come altre volte è l’opposto entusiasmo a prevalere.
Ma perché il lavoro è così difficile? Lo è non solo per gli ambienti di miseria che si conoscono e si portano nella vita di tutti i giorni, ma per i diversi modi che abbiamo di rapportarci alle problematiche che affrontiamo ogni giorno. Altrettanto frequente è sentir dire da un operatore «Non sono le persone che aiutiamo a darmi problemi. Sono più i miei colleghi, le persone con le quali lavoro a rendermi faticoso il lavoro». Io posso essere in una casa accoglienza, al binario o sulla strada perché penso che la gente che passa è poveretta e disgraziata, perché penso che sono miei simili, perché mi muove un ideale di giustizia o semplicemente perché ho tempo. In ogni caso ho ragione e nessuno mi può criticare, dar torto o, peggio, fermare. Perché sono nel giusto, sono sincero.
Spesso questi atteggiamenti già in partenza diversi fra loro si scontrano contro una realtà molto più complessa di quello che sembra, dove un groviglio di servizi diversificati non sembrano dare soluzioni concrete alle situazioni di tutte le persone che hanno bisogno. A quel punto il desiderio di uscire allo scoperto e criticare le istituzioni diventa spontaneo e anche molto giustificato – ma ingenuo.
Io posso essere in una casa accoglienza, al binario o sulla strada perché penso che la gente che passa è poveretta e disgraziata, perché penso che sono miei simili, perché mi muove un ideale di giustizia o semplicemente perché ho tempo. In ogni caso ho ragione e nessuno mi può criticare, dar torto o, peggio, fermare. Perché sono nel giusto, sono sincero.
Ingenuo perché aiutare non è solo offrire una coperta alle persone, o fare in modo che possano cambiarsi d’abito o che mangino. Ma permettere l’estensione di una rete sociale capace in primo luogo di attivare le persone a risollevarsi. In quest’ottica, l’assistenzialismo è la prima metodologia di lavoro che bisogna imparare a mettere da parte. Perché aiutare è prima di tutto giocarsi testa, pancia e piedi in quello che si sta vivendo.
Sono con una persona che vive sulla strada ed è alterata? Il suo bisogno primario non sarà quello di ricevere una coperta, ma di sentire che qualcuno intorno a lei c’è e che quel qualcuno la vuole considerare una persona umana degna di esprimere quello che sente di essere. Come? Facendole capire che ho il tipo di sensibilità giusta a farglielo sentire.
Sono con una persona dall’Eritrea che cammina spaesata sul binario? Il suo bisogno primario non sarà quello di mangiare, ma la possibilità di sentirsi al sicuro. Come? Anche dandole la possibilità di mangiare in un posto caldo e con tranquillità.
A volte sembra assurdo scoprire quanto l’intervento di un volontario possa apparire nel concreto più efficace di quello di una persona laureata nel sociale. Ancora più assurdo scoprire come la professionalità a volte è meno efficace del gesto più umano di una persona inesperta. Assurdità? Contraddizioni? Forse non del tutto. Questo è il potere del volontariato. Non è per niente facile lavorare tutti i giorni con le persone. Ecco perché esiste il volontariato: per ricordarci che siamo persone.
Le istituzioni e tutti gli enti sociali devono avere l’obiettivo seppur remoto di scomparire; perché non possono solo risolvere i problemi, ma devono creare le condizioni per cui le persone possano affrontarli in autonomia. Queste realtà scomparirebbero dal momento in cui ogni persona avesse gli strumenti per sentirsi in pace con se stessa. E queste consapevolezze si sviluppano a prescindere dalla professionalità o dal proprio vissuto, perché la forza di rialzarsi e di reagire è una competenza umana, non lavorativa.
Il problema è che non si può vivere di ideali quando fuori dalle nostre case ci sono guerre che esplodono e persone che soffrono il freddo. Per questo poi nascono le incongruenze e, nei casi peggiori, gli scontri. Aiutare diventa quindi aiutare ognuno alla sua maniera, per quello che sente che è giusto per se stesso. Siamo tutti diversi ed è giusto che ognuno sviluppi il proprio tipo di esperienza nel silenzio del gesto che fa, ma soprattutto rispettando e anzi vivendo in maniera aperta le esperienze degli altri; proprio perché la perfezione, nel sociale, non esiste.
Le istituzioni e tutti gli enti sociali devono avere l’obiettivo seppur remoto di scomparire.
Alla fine le attività nel sociale sono attività paradossalmente individuali. Noi le viviamo sempre dal nostro individuale punto di vista (rimandiamo alle parole di Castelli sui “tempi della strada”). Del lavorare con le persone se ne può discutere in gruppo, si può litigare e ritenersi ipocriti, alle volte addirittura dannosi. Si può ritenere che un tipo di operatori sbagli tutto o che quel volontario sia molto ingenuo o che quella persona sia poco o troppo rigida.
Perché spesso non siamo in grado di venirci incontro ma cadiamo in questi errori di giudizio?
La verità è che non siamo abituati ad aiutare e non sappiamo farlo. Perché se lo sapessimo fare, le prime persone che aiuteremmo, sono quelle che ci stanno accanto nella vita di tutti i giorni, non le persone sulla strada o in fuga nelle stazioni. E non le aiuteremmo con gesti di carità, ma trattandole da pari: attraverso la sincerità e l’essere autentici.
Non siamo in grado di capire che “Ogni persona è importante”, che ogni persona a seconda del punto di vista può aver ragione e torto, sbagliare e contemporaneamente aver fatto la cosa migliore. Non siamo in grado e non siamo ancora pronti a essere aperti agli altri, perché siamo troppo individualisti e chiusi nel nostro perimetro.
Ma forse stiamo crescendo.