Sono Luca e ho 20 anni. Inevitabilmente sono giovane, ma non giudicatemi per questo. Vivetemi, perché poi sarò già vecchio. È normale: un adulto e un giovane vivono due mondi diversi. Negarlo è follia; fingere di essere uguali è indecenza. Se penso agli uffici degli adulti, per esempio, penso all’odore della carta stampata e al colore nostalgico delle foto di famiglia. Avverto uniformità dovuta al lavoro per una missione comune: tirare avanti sé e la propria famiglia. Per noi giovani è diverso – se siamo fortunati e qualcuno pensa alla nostra sopravvivenza. La scuola non dà uniformità (anche se ci prova) perché accoglie persone diverse che possono cambiare, sviluppare una propria interiorità e scambiarsi idee. Possiamo informarci, chiedere, partire, dire la nostra.
Non c’è persona che realmente ci conosca. In famiglia sono una persona, con gli amici un’altra, al lavoro un’altra ancora, e così quando faccio volontariato o studio. L’interiorità è mia e mostrare diversi lati di me alla volta diventa un modo per salvaguardarmi dal pericolo di sentirmi alienato. E per non sentirci alienati abbiamo bisogno oggi più che mai delle relazioni. Da piccolo ho sempre vissuto l’idea della maggiore età, della fine della scuola, dell’amore, della macchina e del lavoro come qualcosa di lontano ma che sarebbe arrivato. Ora che tutto è arrivato mi ritrovo piccolo in un mondo dove le persone hanno poco da dire oppure lottano a chi appare il più forte; mancano certezza sul futuro, personalità e senso di responsabilità.
Abbiamo tanta voglia e tanto bisogno di esprimerci. Vogliamo sentirci vivi e rendere partecipi delle nostre epifanie gli altri, per riscoprirci uguali; vogliamo conoscere il mondo, comprenderlo e agire, fare, sporcarci le mani con il fango della Terra. E lasciare il segno. «I giovani devono svegliarsi e prepararsi perché c’è bisogno per il mondo» dice un ragazzo senegalese. E ha ragione. Abbiamo voglia di cambiare il mondo, perché è vecchio, non funziona e non è un mondo giusto.
Da piccolo ho sempre vissuto l’idea della maggiore età, della fine della scuola, dell’amore, della macchina e del lavoro come qualcosa di lontano ma che sarebbe arrivato. Ora che tutto è arrivato mi ritrovo piccolo in un mondo dove le persone hanno poco da dire oppure lottano a chi appare il più forte; mancano certezza sul futuro, personalità e senso di responsabilità.
Classe ’95: un mondo in cui tutto è possibile, il GameBoy è uno strumento ovvio e la Nintendo è sempre esistita. La Melevisione e i delfini sulla cartella degli Scout mi accompagnano a scuola. Volo sugli aerei e vedo i grattacieli. Poi a sei anni due torri cambiano gli scenari e interrompono i cartoni animati; il clima si fa tetro. Conosco le parole “guerra” e “terrorismo” che accompagneranno inevitabilmente la mia giovinezza. 2008: comincia la crisi economica, comincio a leggere i giornali e nel 2011 leggo su Internazionale che “L’occidente non è più in grado di garantire il benessere delle nuove generazioni”. I media vanno a ritmo di spread e penso che la politica sia uno schifo, poi ascolto Benigni alla televisione e mi ricredo: «Disprezzate i politici, ma non la politica» dice. Odio la televisione perché a scuola ho studiato Pasolini che la critica. Siccome è un ribelle, io sto con lui. Ma poi mi rendo conto che, se non odio la politica, è grazie alla televisione.
Qual è il mondo vero? Per cosa siamo venuti al mondo? Cosa ci carica, riempie, distrugge, cosa ci fa gridare e piangere per la rabbia? La scuola insegna i poeti, ma se non bastano o ti chiudi nella matematica o esci allo scoperto: mi serro nei miei pregiudizi «state lontani da me»; mi unisco a una crew; mi sfogo nello shopping, attratto dai nudi in vetrina o nella ginnastica perché leggo libri sul benessere; scrivo post eterni su Facebook, attiro like e mi sento appagato. Sono tutte reazioni vere, comprensibili e, a loro modo, giuste. Ma il mondo vero prima o poi arriva. Che sia per un terremoto, un attentato o una crisi, fa sbattere la testa: «il mondo è un’altra cosa, non quella che pensavi». Allora apriamo gli occhi e cominciamo a vivere.
Penso che la politica sia uno schifo, poi ascolto Benigni alla televisione e mi ricredo: «Disprezzate i politici, ma non la politica» dice. Odio la televisione perché a scuola ho studiato Pasolini che la critica. Siccome è un ribelle, io sto con lui. Ma poi mi rendo conto che, se non odio la politica, è grazie alla televisione.
Non esistono più gli ideali: quale ideale in un mondo complesso e relativo? Un tempo esistevano Gandhi, Che Guevara, Pasolini e si leggeva Siddharta con lo spirito di chi vuole cambiare il mondo. Un tempo si facevano le rivoluzioni a vent’anni, oggi a vent’anni si guarda ancora Harry Potter. L’ideale è un “ideale” superato, ci sono le imprese che gli uomini lasciano sulla Terra e che si reggono sulla memoria delle persone, sulle relazioni.
Ma il mondo vero prima o poi arriva. Che sia per un terremoto, un attentato o una crisi, fa sbattere la testa: «il mondo è un’altra cosa, non quella che pensavi». Allora apriamo gli occhi e cominciamo a vivere.
Harry Potter, appunto, è un fenomeno che non si può ignorare. Il giovane Harry vive in un mondo stereotipato nel quale ci sono, con diverse sfumature, il bene e il male senza vie di mezzo. Harry sente di avere qualcosa che Voldemort, il suo grande nemico, non potrà mai avere: «Qualcosa per cui combattere». Il bene che combatte il male. È questo che per anni ha entusiasmato i lettori. È questo che cerchiamo anche noi ma, in un mondo complesso e lontano dagli stereotipi e dove bene e male si mescolano fra loro (trovandoli spesso anche in noi stessi), non sappiamo contro cosa combattere.
Ma io sono solo un giovane ventenne che a pensare a Harry Potter un po’ si commuove e un po’ vorrebbe che il mondo fosse così. Esce pure una lacrima – magari ne faccio un post su Instagram.