Gina è una donna di 36 anni e ha un volto e un tono di voce ottimisti. Nata in Colombia e cresciuta in “España”, è arrivata a Bolzano sette anni fa grazie al Servizio Volontario Europeo e attualmente studia Scienze dell’Educazione a Bressanone. È referente della fase di primo contatto all’interno del progetto Alba in Volontarius, nato nel 2003 e rivolto alle persone vittime di tratta e sfruttamento. Nonostante la paura di non spiegarsi sufficientemente bene, Gina non usa mezzi termini quando parla.
Quante persone incontrate sulla strada?
Da gennaio 2016 a oggi sulla strada abbiamo incontrato 177 persone emarginate e potenziali vittime di sfruttamento sessuale. In media sono poco più di venti ma cambiano nel tempo. Molte persone poi ci vengono segnalate dalle realtà del luogo o alcune ce le segnala la Commissione Territoriale di Verona dopo aver ascoltato le storie di persone richiedenti protezione internazionale.
Cos’è lo sfruttamento?
Lo sfruttamento è una forma di schiavitù e va intesa come negazione della libertà, obbligo al lavoro, obbligo a cedere il guadagno: non vengono garantite le condizioni minime per la vita. Sbaglia chi serra il fenomeno in degli schemi: ogni caso e ogni storia vanno analizzati partendo dalla persona. Il fenomeno si è evoluto nel corso degli anni ed è diventato più complesso: oggi lavorare in rete è fondamentale perché il fenomeno si intreccia con diversi servizi della città.
Come si è evoluto il fenomeno nel corso degli anni?
Sono cambiate le persone vittime del fenomeno, prima persone dell’est ma oggi anche persone provenienti dall’Africa. Poi si è evoluto il tipo di violenza subita. All’inizio si trattava di una violenza fisica mentre ora è molto più psicologica. Oggi chi sfrutta le persone è lontano; se prima potevano essere mariti, persone comunque vicine e con addirittura un legame con la persona vittima, oggi le donne sono più autonome e non hanno figure maschili che le controllano da vicino, ma da zone che non conosciamo, comunque lontane dalla città. Una violenza che spesso parte dal paese d’origine: quando una persona nasce in un mondo che la reprime e la costringe a fare quello che vuole, finisce per perdere la propria identità.
Lo sfruttamento è una forma di schiavitù e va intesa come negazione della libertà, obbligo al lavoro, obbligo a cedere il guadagno: non vengono garantite le condizioni minime per la vita.
Come si restituisce a una persona la propria identità?
Le persone che arrivano, dopo tutti i lunghi viaggi che hanno fatto, sappiamo che molto probabilmente hanno vissuto episodi di violenza, di tratta o sfruttamento. Però tante donne che incontriamo non lo ammettono subito, ma dopo molto tempo. Per questo durante i primi contatti dobbiamo leggere tra le righe di quello che ci viene detto. L’obiettivo è aiutare le persone a ritrovare la propria identità. E ritrovare la propria identità significa anche aiutare a riconoscersi come vittime.
Quando una persona nasce in un mondo che la reprime e la costringe a fare quello che vuole, finisce per perdere la propria identità.
Non è facile. Dopo il primo contatto informale si fissano alcuni appuntamenti più formali durante i quali si parla insieme e si cerca di far emergere la storia della persona. È un lavoro lungo e ci vuole molta pazienza. Abbiamo sperimentato diverse metodologie di intervento, da quelle più dirette a quelle meno incisive. Una volta che la relazione con la persona c’è, allora le facciamo capire che ha dei diritti, che esistono altre opzioni.
Dovete addirittura spiegare che esistono “altre opzioni”?
Sì. Culturalmente molte persone sono cresciute in questo vicolo cieco e non sanno a chi rivolgersi. Per questo si tratta di un processo lungo. Si educano le persone a responsabilizzarsi della propria vita e delle proprie scelte. La persona dopo qualche colloquio deve saper scegliere, anche dire «dammi un po’ di tempo», ma deve essere una scelta. Non sono un militare che ti comanda. Questo non significa neanche dover trattare le persone come bambini, perché sono comunque persone adulte che hanno affrontato pericoli che noi neanche immaginiamo.
E poi cosa succede?
Se la persona desidera prendersi del tempo per scegliere ed è in una situazione a rischio, allora viene presa in carico, sempre all’interno del progetto Alba, dall’associazione La Strada – Der Weg che effettua un accompagnamento finalizzato all’inclusione socio-abitativa. L’associazione mette a disposizione degli appartamenti protetti e anche noi come associazione abbiamo a disposizione alcuni appartamenti. Dopodiché accompagniamo la persona al consorzio sociale Consis Onlus, che ha lo scopo di favorire l’inserimento lavorativo.
La persona dopo qualche colloquio deve saper scegliere, anche dire «dammi un po’ di tempo», ma deve essere una scelta.
Se la persona rifiuta?
Capita che le persone già al primo contatto sulla strada non accettino alcun tipo di aiuto. Noi a quel punto continuiamo a offrire un servizio di assistenza e monitoraggio. Infatti può succedere che per qualche avvenimento o per un periodo particolarmente difficile, la persona si rivolga a noi. È tutto molto legato alla relazione: la persona può dire di no adesso, ma non per questo chiudiamo le nostre porte. Anzi, lasciamo sempre dei riferimenti telefonici utili. Partiamo dal presupposto che ogni scelta di cambiamento deve partire consapevolmente dalla persona, altrimenti non sarà mai un intervento efficace.
Il fenomeno è sotto controllo?
Il fenomeno è costantemente monitorato, ma questo non significa che lo conosciamo tutto, soprattutto perché è molto variabile. Per fare un esempio, oggi sono molte le persone che incontriamo di alcune nazionalità, come quella nigeriana; in Germania in questo momento il fenomeno vede emergere invece molti somali ed eritrei. Questo significa che il fenomeno è molto diffuso. Diventa importante conoscerlo a livello internazionale per tenerlo sotto controllo.
Partiamo dal presupposto che ogni scelta di cambiamento deve partire consapevolmente dalla persona, altrimenti non sarà mai un intervento efficace.
Cosa significa per te, come donna, svolgere questo tipo di lavoro?
È mettermi alla prova, mettermi in gioco personalmente. Mi fa tornare nella mia Colombia, dove ricordo veramente tanto maschilismo e tanta povertà. In America Latina in generale è molto diffuso il maschilismo: la donna deve apparire in un certo modo, mi ricordo addirittura parrucchieri aperti alle quattro di mattina per far fronte a questo.
Quando apro il giornale e leggo di “prostitute”, penso che il fenomeno non può riguardarmi. Secondo te ci riguarda?
Sono fenomeni tristemente internazionali. Penso che si generalizzi quando il fenomeno si chiude in delle categorie, come per esempio quella delle “prostitute”. Le prostitute, prima di essere prostitute, sono donne. Quando conosciamo personalmente le persone scopriamo di avere molti punti in comune: famiglie, passioni, mestieri. Il sorriso e le emozioni poi sono internazionali. Per questo è un fenomeno che ci riguarda e che ci chiede di sforzarci di non rimanere in superficie, ma di andare più a fondo. «Io non voglio tornare a fare quella vita» ho sentito spesso dire. E noi dobbiamo esserci.
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