Arianna ha 27 anni, è una donna sicura di sé e ha un volto e una voce seri, ma lo sguardo che cerca in quello dell’altro delle risposte, delle conferme. Si commuove, mentre parla. Laureata in scienze naturali a Roma, vive a Bolzano da un paio d’anni, dove sta approfondendo le materie di sostegno naturale. È referente con Volontarius del servizio di assistenza umanitaria alla stazione di Bolzano, che da aprile 2015 offre assistenza alle persone in fuga dai propri paesi e in transito alla stazione di Bolzano con l’obiettivo di raggiungere paesi del nord.
In cosa consiste il servizio di assistenza umanitaria?
Il servizio di assistenza provvede alle esigenze di base: offriamo qualcosina da mangiare, un piccolo ristoro nella nostra saletta, vestiti, materiale igienico, una doccia calda per chi ne fa richiesta. Cerchiamo soprattutto di esserci per le persone. Dare un panino, una coperta o un sorriso può sembrarci banale, ma in realtà è una grande cosa per le persone che incontriamo, che sono diffidenti e bisognose di attenzioni o di qualcuno che ricordi loro che esistono. In questo senso cerchiamo di esserci, nel rispetto di quelle che sono le esigenze individuali delle persone. Questo è l’aspetto più delicato e importante.
Cosa intendi con “esigenze individuali delle persone”?
Non tutte le persone che incontriamo hanno gli stessi bisogni, lo stesso passato e lo stesso bagaglio culturale. Anche i momenti in cui le incontriamo sono molteplici, le fasi del loro viaggio tantissime e differenti. Allora cerchiamo – ed è l’aspetto più difficile da ricordare – di esserci per quelle che sono le loro necessità e non le nostre. Corriamo sempre il rischio di cadere nell’errore di pensare che la cosa migliore per la persona che abbiamo di fronte è quella che abbiamo in mente noi, ma non è così. È importante invece non sostituirci alle persone che incontriamo con i nostri bisogni interiori ma renderci partecipi di quello che stanno vivendo e provvedere a soddisfarle nei limiti del possibile.
Dare un panino, una coperta o un sorriso può sembrarci banale, ma in realtà è una grande cosa per le persone che incontriamo, che sono diffidenti e bisognose di attenzioni o di qualcuno che ricordi loro che esistono. (…) Corriamo sempre il rischio di cadere nell’errore di pensare che la cosa migliore per la persona che abbiamo di fronte è quella che abbiamo in mente noi, ma non è così.
Com’è andata la giornata di oggi?
Qui in saletta sono arrivate tre famiglie e tutte e tre sono state collocate. Erano molto gentili. I bambini hanno approfittato dell’angolo giochi per passare qualche ora spensierata, chi con i camioncini, chi con i pennarelli, chi con le bambole. Quando stavano andando via, la bambina voleva tenersi la Barbie. Quando le abbiamo detto che poteva, il papà si è girato verso la figlia e le ha detto qualcosa. La figlia ci ha guardati e ci ha detto «Grazie!».
Cosa significa gestire questo tipo di servizio?
Non è un impegno che vivo solo nelle ore in cui sono fisicamente qui, perché vivo con serietà l’impegno, voglio svolgerlo al meglio. Ogni giorno incontro esperienze nuove. Molte volte devo fermarmi a pensare anziché mettere in moto una macchina automatica e valutare di volta in volta il bene maggiore per le persone, perché sottolineo che lavoriamo per le persone. Vivo quest’esperienza con una grande responsabilità, sia perché non manchi nulla, sia perché il gruppo sia pronto: siamo persone che aiutano persone e per essere in grado di aiutare al meglio dobbiamo saper comunicare tra di noi, stare bene e avere una linea comune. Il servizio si è evoluto e ci siamo impegnati molto per capire necessità, contatti e reti necessarie per portarlo avanti.
Il fatto che tu sia una giovane donna ha delle implicazioni in tutto questo?
Mentirei se dicessi che non ci sono stati momenti in cui ho avuto timore, ma non più che in altre circostanze, in altre zone della città o in altri momenti della mia vita. È vero, la stazione è una zona che per antonomasia si ritiene ricca di pericoli e di persone poco raccomandabili. Però ci tengo a sottolineare che mai le persone direttamente assistite hanno avuto atteggiamenti violenti contro di noi. Vige comunque sempre la regola, ma non solo per noi donne, di salvaguardare prima se stessi.
Siamo persone che aiutano persone e per essere in grado di aiutare al meglio dobbiamo saper comunicare tra di noi, stare bene e avere una linea comune. (…) La giovane età ci permette di crescere insieme in questa esperienza.
Siete pure un gruppo molto giovane!
È una grande ricchezza e un grande pregio che un gruppo giovane riesca a portare avanti un servizio di questo spessore. Sicuramente la giovane età ci permette di crescere insieme in questa esperienza. Le difficoltà nell’affrontare determinate situazioni poi non sono date dalla nostra età, ma dal fatto che in realtà sono situazioni di per sé difficili. Ho visto tanti adulti più in difficoltà di noi a gestire certe situazioni.
Poi bisogna ricordare che ci danno una mano molti volontari di svariate età, tanti giovani che avendo sentito di questa situazione di necessità hanno dato la loro disponibilità tra un esame e l’altro o dopo scuola. Spesso neanche serve che spieghiamo loro il lavoro, lo capiscono da soli.
Qualche ricordo di questo anno come referente?
Un pomeriggio, quando è tornata in stazione una signora che aveva appena partorito, ricordo che cercavamo tutti insieme di risolvere una problematica riferita al poter stare insieme al marito. Era estremamente dolce come scena la volontà di stare insieme. Ricordo anche una mamma eritrea con un neonato in braccio. Erano da poco arrivati, mi sono avvicinata per salutare e per fare le facce al bimbo e lei me l’ha messo in braccio come per dire “tientelo, giocaci!”. Insomma, la mamma dopo un quarto d’ora si è fidata a lasciarmi in braccio suo figlio.
Chi sono le persone vulnerabili?
Le persone vulnerabili sono donne in gravidanza, donne sole o con bambini piccoli, persone vittime di tortura, minori non accompagnati, che hanno il diritto a essere tutelati. Passano tante persone vulnerabili in questo periodo. Ogni giorno ci ritroviamo a fare un lavoro di mediazione con tutti gli attori che sono coinvolti in queste procedure (forze dell’ordine, istituzioni pubbliche, ecc.) per far capire che a ogni necessità bisogna rispondere.
Erano da poco arrivati, mi sono avvicinata per salutare e per fare le facce al bimbo e lei me l’ha messo in braccio come per dire “tientelo, giocaci!”. Insomma, la mamma dopo un quarto d’ora si è fidata a lasciarmi in braccio suo figlio.
Come funziona con i ragazzi minorenni che incontrate, quando sono soli?
I minori vanno tutelati e non dico “accolti” perché molteplici sono le loro volontà. Spesso infatti vogliono raggiungere i famigliari e non fermarsi in Italia. In Europa esiste il diritto al ricongiungimento familiare, che dovrebbe permettere ai minori di raggiungere il parente più vicino; tuttavia questo non viene applicato perché sono state ripristinate le frontiere e i controlli ai confini si sono intensificati. Ciò significa che i ragazzi, fermati in più zone d’Italia, formano dei gruppi per farsi forza e cercano con tutte le forze di andare avanti, anche perché spesso hanno delle istruzioni ben precise (non lasciare le impronte, non dire quanti anni hai, ecc.). Quindi al di là della tutela, non c’è il più delle volte una volontà di fermarsi in centri che necessariamente poi li porterebbero a restare legalmente in Italia.
Può anche capitare che le cose vadano diversamente. Quest’estate abbiamo incontrato un ragazzo minorenne e siamo riusciti a entrare in contatto con gli educatori del centro di Roma dal quale proveniva e a coordinare un intervento col quale sono riusciti a venire su a Bolzano, parlargli e infine riportarlo a Roma. Siamo riusciti a tutelarlo in questa maniera.
In Europa esiste il diritto al ricongiungimento familiare, che dovrebbe permettere ai minori di raggiungere il parente più vicino; tuttavia questo non viene applicato perché sono state ripristinate le frontiere e i controlli ai confini si sono intensificati.
La città di Bolzano è rimasta molto scossa dalla morte di Abeil, il giovane ragazzo eritreo morto cercando di salire su un treno merci. Ci spieghi com’è andata a finire?
Dopo la morte del ragazzo abbiamo contattato con le forze dell’ordine il fratello e lo zio, residenti in Germania. Sono arrivati in Italia solo il venerdì e gli amici del ragazzo nel frattempo sono rimasti con noi. Poi sabato mattina hanno chiesto l’acquisto dei biglietti per Milano. Li abbiamo acquistati vista la specificità della situazione e vista la volontà di andare via. Mi preme osservare che si sono detti stanchi di incontrare continuamente persone, in saletta o fuori, che li fermavano per parlare o per far loro domande. Poi si sono detti arrabbiati nel vedere le loro fotografie pubblicate sui giornali: pare che qualcuno, spero non un giornalista, abbia detto loro che se le loro facce fossero state messe su un giornale avrebbero avuto più facilità nell’andare in Germania.
All’interno del vostro esserci ci sono dei limiti?
Noi lavoriamo nei limiti di ciò che è possibile, istituzionalmente parlando; senza limiti, umanamente parlando. Sembra facile, ma bisogna imparare di giorno in giorno a capire se le nostre azioni hanno l’obiettivo migliore o il migliore possibile in quella situazione. Non possiamo fare tutto. Essendo un servizio legato alle istituzioni, dobbiamo rispettare la fattibilità e la legalità delle cose. Non siamo un servizio che deve rispondere a tutti i bisogni delle persone che si spostano o che sono in stazione. Così come non possiamo offrire accoglienza laddove ci sono dei procedimenti disciplinari delle forze dell’ordine, come per esempio un decreto d’espulsione; se ci sono dei minori non possiamo prenderli di nostra spontanea volontà e decidere che andranno a dormire da qualche parte; il procedimento di riconoscimento e collocamento deve essere affidato alle forze dell’ordine. La nostra presenza è invece di aiuto e di orientamento per la polizia stessa, che spesso non conosce la situazione generale.
Gli amici di Abeil si sono detti arrabbiati nel vedere le loro fotografie pubblicate sui giornali: pare che qualcuno, spero non un giornalista, abbia detto loro che se le loro facce fossero state messe su un giornale avrebbero avuto più facilità nell’andare in Germania
Con chi collaborate all’interno del servizio?
Il servizio era previsto come coordinamento di Volontarius in collaborazione con Caritas e Croce Rossa, ma attualmente è gestito esclusivamente da noi, con la disponibilità di una saletta infermieristica della Croce Rossa. Sono invece molto presenti volontari cittadini, alcuni vengono regolarmente, altri ogni tanto. Dicevo prima che è importante avere una linea comune: anche in questo caso, essendo tante persone eterogenee, per collaborare è necessario saper stare insieme e saper fare fronte comune. Non è sempre facile.
Noi lavoriamo nei limiti di ciò che è possibile, istituzionalmente parlando; senza limiti, umanamente parlando. (…) Non possiamo offrire accoglienza laddove ci sono dei procedimenti disciplinari delle forze dell’ordine; se ci sono dei minori non possiamo prenderli di nostra spontanea volontà e decidere che andranno a dormire da qualche parte.
Umanamente parlando cosa significa questa attività?
È intensa e molto stancante. Incontriamo tante persone, ognuna con una sua specificità. Capita di scontrarci con il senso di impotenza: noi siamo un’assistenza per le persone in transito, poi non possiamo sapere cosa faranno le persone una volta lasciata la città. Capita che le persone ci guardino con gli occhi spalancati e ci dicano «Aiutami, voglio andare in Germania dalla mia famiglia, dì alla polizia di farmi passare» e tu sei lì che non sai cosa dire. Non sai.
È stancante e distruttivo. Anche perché non si capisce mai qual è il bene e qual è il male, cos’è giusto e cos’è sbagliato. Tu sai che è profondamente ingiusto quello che la persona sta vivendo e sai di essere tu la persona che gli dice di no. Questo è l’aspetto più brutto perché tu sai anche, ma non lo dici, che dovunque andranno sarà difficile, che i loro problemi non verranno risolti facilmente.
Non si capisce mai qual è il bene e qual è il male, cos’è giusto e cos’è sbagliato. Tu sai che è profondamente ingiusto quello che la persona sta vivendo e sai di essere tu la persona che gli dice di no.
È facile sentire poi una sensazione di affollamento, perché dopo che fai questo lavoro da tempo hai visto tante persone e hai una percezione di questo fenomeno che è fuori controllo, ti sembra di aver visto milioni di persone, quando così non è. E non possiamo permetterci di pensare «sì, questo uomo è come quello dell’altra volta, farò così, così e così» perché poi quell’uomo ti dice che è stanco, che non ne può più di queste situazioni, che vuole passare la frontiera. E lo sai che è vero. Non puoi fare niente. Puoi sperare che gli vada bene la tua risposta. E continuare a esserci. Per tutti.