Agnese è una giovane donna con il sorriso sciolto e tanta voglia di mettersi in gioco, che emerge quando parla delle persone che incontra, ma anche di se stessa, usando parole che denotano un’esperienza nuova: ri-nascere, ri-pensarsi. Una sensibilità ancora più forte perché, dopo un lungo periodo di lavoro al fianco del Gruppo Volontarius come responsabile delle seconde accoglienze per l’Area Persone Migranti, anche Agnese ha deciso di rinnovarsi, stavolta fuori dall’Italia – ma sempre al fianco delle persone, perché questo le si legge negli occhi: l’amore per le persone.
Chi è Agnese?
Non è una domanda facile! Posso cominciare dicendo che sono Agnese, ho 33 anni e sono psicologa. All’inizio volevo lavorare nel campo della tossicodipendenza, poi, mentre facevo la telefonista in un kebab per pagarmi gli studi, sono rimasta affascinata dalle culture dei miei colleghi: ascoltare le loro storie e conoscere le culture dei loro paesi, mi ha suscitato l’interesse per le migrazioni, tema che ho portato alla laurea con una tesi sul processo di costruzione dell’identità degli immigrati senegalesi. In seguito ho lavorato come psicologa in un centro di accoglienza.
Cosa ti porti via dalla tua esperienza di psicologa?
Ci sono persone che rimarranno sempre con me, che ho incontrato settimanalmente per un anno intero per affrontare i traumi e gli orrori che hanno vissuto. Ti chiedi se l’uomo può davvero arrivare a fare certe cose, cose che uno difficilmente si immagina; anche perché poi queste sono le persone che quando le incontri per strada ti mostrano il sorriso. Ecco, mi porto via la capacità di rinascere e rinnovarsi, quella capacità rigenerativa di ricrearsi e di ricostruirsi una vita che è una cosa meravigliosa.
Una capacità che non dovremmo mai sottovalutare.
È compito di tutte le figure che lavorano con e per le persone, che siano operatori, psicologi, volontari o avvocati, quello di non tarpare loro le ali, ma anzi di dare strumenti in più per farcela. È bello incontrare persone che erano ospiti di un centro accoglienza e scoprire che hanno un lavoro o che si sono sposate.
Come ti sei avvicinata a Volontarius?
Non ero convinta a trasferirmi a Bolzano, ma sono rimasta molto colpita dal primo colloquio. Ho sentito da subito il desiderio di stare dalla parte delle persone, il senso profondamente umano nel pensare e nell’operare. Sviluppare gli ambiti artistici, per esempio, significa non lavorare solo sul bisogno primario, ma anche su altri aspetti. Tutto questo con la consapevolezza di essere un’organizzazione.
Ti chiedi se l’uomo può davvero arrivare a fare certe cose, cose che uno difficilmente si immagina; anche perché poi queste sono le persone che quando le incontri per strada ti mostrano il sorriso. Ecco, mi porto via la capacità di rinascere e rinnovarsi, quella capacità rigenerativa di ricrearsi e di ricostruirsi una vita che è una cosa meravigliosa.
Cosa significa “essere un’organizzazione”?
Essere un’organizzazione significa essere capaci di adattarsi alle esigenze del tempo, che cambiano. Penso che tutte le persone più sensibili alle tematiche sociali abbiano l’idea di aiutare il prossimo: il punto è trovare un modo organizzato e coerente per farlo. Ciò significa scendere a compromessi con i fondi, le possibilità e la politica da una parte, e cercare di non fermarsi al mero assistenzialismo dall’altra, rendendosi anche conto fino a che punto ha senso aiutare la persona e fino a che punto è bene invece fermarsi e lasciar fare alla persona da sola.
Ti sei occupata delle seconde accoglienze. Ci spieghi cosa sono?
Sono i centri che accolgono le persone dopo che hanno già trascorso un periodo sul territorio e che quindi hanno già iniziato a conoscere la zona, la lingua e che hanno già iniziato a formalizzare i documenti. Queste strutture vogliono essere l’anello di congiunzione tra il centro di prima accoglienza e la vita in autonomia: le persone possono cucinare da sole e gli operatori si impegnano soprattutto sull’inserimento lavorativo e sull’inclusione. Per questo le case si trovano in paesi più piccoli rispetto a Bolzano.
Abbiamo davvero dei bei risultati: per esempio a Casa Valtnaun di Rifiano quasi tutti sono occupati tra lavori, corsi di formazione e attività di volontariato.
Penso che tutte le persone più sensibili alle tematiche sociali abbiano l’idea di aiutare il prossimo: il punto è trovare un modo organizzato e coerente per farlo. Ciò significa scendere a compromessi.
Cosa significa aprire una casa accoglienza?
Significa mettere insieme tantissime cose. Le relazioni con la cittadinanza e i volontari; l’apparato tecnico-logistico, le ristrutturazioni, la verifica che la struttura sia a norma; la preparazione del personale. Poi le aspettative sono sempre molto alte e, per quanto possa passare il tempo, non ci si sente mai veramente pronti: si prova sempre un forte senso di responsabilità perché si vuole fare al meglio, come è emerso più volte per esempio nell’equipe di Casa Druso, a San Candido.
E accompagnare un operatore nel suo percorso cosa significa?
Intanto è di vitale importanza e forse non sempre si riesce a fare adeguatamente, soprattutto quando aprono in tempi molto ravvicinati più case accoglienza come è successo con Laimburg e Funes. Un referente o un operatore è importante che capisca di non essere solo, che può far riferimento ai colleghi e ai responsabili e che fa parte di un’organizzazione con tante persone che vivono la sua stessa quotidianità. La cosa fondamentale è l’equipe, creare unità fra gli operatori e possibilità di confronto.
Cos’hai letto negli occhi dei tuoi colleghi?
Il mestiere di operatore non è facile: devi essere in grado di risolvere problemi pratici e logistici, anche quelli più banali, devi saper gestire le relazioni con colleghi e ospiti (e non è scontato) ed essere in grado di sviluppare nel tempo conoscenze legate alla burocrazia, all’ambito legale e alle procedure da portare avanti. Quindi veramente tanto lavoro che spesso si concentra in poco tempo.
Quello che vedo negli occhi dei colleghi è, nonostante tutto, l’entusiasmo e la passione per il lavoro. Penso che chi non è appassionato resiste poco: è un lavoro faticoso, molto impegnativo e che spesso porti a casa. Ho incontrato delle equipe veramente stanche e appesantite, ma sempre con la voglia di continuare: non si vogliono fermare, loro sono lì per dare il meglio. Sempre.
Un referente o un operatore è importante che capisca di non essere solo, che può far riferimento ai colleghi e ai responsabili e che fa parte di un’organizzazione con tante persone che vivono la sua stessa quotidianità.
È necessario un supporto psicologico anche per chi lavora?
Sì e abbiamo fatto molti passi avanti in questo senso. Chi lavora è costantemente sottoposto a una dose di stress e frustrazione molto forte. L’operatore chiaramente vorrebbe il massimo per gli ospiti, però poi succede per esempio che arriva il diniego da parte della commissione, quindi si ritrova a pensare che forse la persona che sta aiutando può finire per strada. Un operatore che tiene ai propri ospiti questo malessere lo porta a casa, ci soffre, deve fare i conti con la propria non onnipotenza: abbiamo dei confini ben definiti. Altre volte capita di confrontarsi con un ospite che ha un sacco di potenzialità ma che non le sfrutta e si vorrebbe in tutti i modi spronarlo, come un genitore vorrebbe il massimo dal figlio anche se il figlio in quel momento non si dà da fare perché è demotivato o è successo qualcosa.
Cosa significa passare dal lavorare con le persone al lavorare “dietro le quinte”?
Cambia la prospettiva, ma non l’obiettivo: relazionarsi con i referenti e il più possibile anche con le equipe, vuol dire creare le condizioni per le quali il lavoro possa ricadere positivamente sulle persone accolte.
Ho incontrato delle equipe veramente stanche e appesantite, ma sempre con la voglia di continuare: non si vogliono fermare, loro sono lì per dare il meglio. Sempre.
Quali sono le difficoltà che le persone richiedenti asilo incontrano a Bolzano?
Sono le difficoltà legate al conoscere un mondo completamente diverso, una cultura diversa, qui a Bolzano anche con una doppia lingua. Sono le difficoltà del riuscire a farsi riconoscere come persone, a far superare determinati stereotipi che abbiamo tutti, perché ognuno di noi quando pensa a una persona di un altro paese usa degli stereotipi. Sono le difficoltà connesse al ridisegnarsi con ruoli diversi, ripensarsi in termini di percorso di vita e di sviluppo dell’identità.
Ricordiamo che una persona richiedente asilo può essere un contadino che deve ripensare la sua professione, ma anche l’ingegnere che fino all’altro giorno aveva un ruolo e che qui si ritrova con un titolo di studio che non vale nulla e deve rimettersi completamente in discussione.
Parli di identità: e quelle di chi nelle case accoglienza ci lavora?
In qualche modo cambiano anche quelle, perché il lavoro ti tocca molto. La cosa che ho sempre apprezzato di questo lavoro è che ti fa viaggiare pur restando fermo, nel senso che incontri così tante culture, storie, abitudini, che secondo me ti portano ad ampliare tantissimo orizzonti e prospettive. Chi fa l’operatore vede tanto mondo e conosce tante storie, come se viaggiasse. Quindi finisce per ridefinirsi anche negli schemi mentali.
Capita di confrontarsi con un ospite che ha un sacco di potenzialità ma che non le sfrutta e si vorrebbe in tutti i modi spronarlo, come un genitore vorrebbe il massimo dal figlio anche se il figlio in quel momento non si dà da fare perché è demotivato o è successo qualcosa.
Hai avuto anche rapporti con la cittadinanza. Cosa ti porti via?
Tantissime persone che non vedono l’ora di dare una mano, ma anche tante persone che per paura di quello che non conoscono tendono a chiudere le porte e a opporre resistenza. La paura per quello che non si conosce è comprensibile, ma queste paure vanno accompagnate e stemperate. A Ortisei c’è stata qualche ostilità all’inizio, ma si tratta di una struttura che funziona bene, anche nelle dinamiche di paese.
Ora che strada hai scelto per la tua vita?
Sarò operatrice in un centro accoglienza di Berlino. Torno alle origini!
Cosa ti porti dietro da quest’esperienza in Volontarius?
Tantissimo. Intanto tutto quello che le persone che ho incontrato qui mi hanno dato. Lavorare come responsabile mi ha messo a contatto con tanti referenti e tanti operatori e da ognuno ho imparato qualcosa. Tornare operatrice con questa consapevolezza, penso che mi dia molto. In più ho conosciuto e vissuto una zona di confine: i due servizi di assistenza umanitaria alle stazioni sono unici, mi hanno colpito molto perché lavorano in un contesto difficilissimo e rispondono a un’esigenza del momento che cambia a seconda della geopolitica europea.
Che cosa, secondo te, potremmo migliorare?
Da migliorare c’è sempre, parto da questo presupposto. Penso che una sfida che sta affrontando Volontarius è quella di dare più strumenti agli operatori, che sono già bravissimi, e lavorare di più sull’inclusione delle persone. Nell’assistenza in emergenza siamo bravi, forse è più nuova proprio questa seconda parte.
Sono le difficoltà del riuscire a farsi riconoscere come persone, a far superare determinati stereotipi che abbiamo tutti, perché ognuno di noi quando pensa a una persona di un altro paese usa degli stereotipi. Sono le difficoltà connesse al ridisegnarsi con ruoli diversi, ripensarsi in termini di percorso di vita e di sviluppo dell’identità.
Cosa diresti a una persona che si avvicina al sociale ed è indecisa se buttarsi o meno?
Se uno se lo sta chiedendo è già pronto. Quando una persona sente di avere questo slancio, vuol dire che qualcosa si è mosso. Uno non arriva a lavorare nel sociale per i soldi, non arriva per le prospettive di carriera, perché spesso non ci sono, ma arriva perché vuole fare del proprio lavoro il proprio stile di vita e coniugare il proprio stile di vita al proprio lavoro. È un lavoro sempre nuovo, un lavoro che ti stanca ma di cui non ti annoi. Dà veramente tanto in termini umani. Ci si sente parte di un processo, si sente di poter fare qualcosa e di poter in qualche modo interferire positivamente con dei percorsi di vita.