Gianluca ha 26 anni e vive a Brunico, ha studiato scienze politiche a Trento e a Innsbruck. Si definisce una persona “attivista”: da molti anni ormai è attivo nel volontariato e nell’associazionismo, nell’ambito della migrazione e della sensibilizzazione; ha partecipato anche a progetti di cooperazione internazionale nei Balcani e antimafia nel sud Italia.
Quando nasce la passione per le persone?
In realtà l’ho sempre avuta, per indole mi sono sempre interessato ai problemi della comunità. Vivo quotidianamente il desiderio di cercare, nel mio piccolo, di fare qualcosa di concreto: al di là dei massimi sistemi, è nel quotidiano che possiamo fare la differenza e questo può avvenire solo facendo piccoli passi, ognuno dei quali costa fatica.
Cosa ti aspettavi dal mondo delle migrazioni?
Devo dire che non sapevo cosa aspettarmi. L’unica consapevolezza che avevo è che la migrazione è il tema di questo secolo e volevo esserci dentro. In un tema che tende a polarizzare le opinioni, voglio dare il mio contributo. Così ho iniziato il mio percorso di affiancamento per diventare referente. Ho iniziato a Merano presso Casa ex Lavoratore, poi a Casa ex Alpi.
Cosa ti porti dietro da queste esperienze?
A Merano, essendoci stato per poco tempo, ho avuto scarse occasioni di entrare in relazione vera e propria con le persone ospiti. Però mi porto via quello che mi ha lasciato l’equipe: avevo dei colleghi fantastici e la coordinatrice, Anne, è una persona straordinaria. Senza un gruppo coeso la Casa non funziona, a maggior ragione se non è di facile gestione già a partire dalla struttura e dai locali, come spesso accade.
Da Casa Alpi mi porto dietro soprattutto il rapporto con le persone ospiti, che sono belle persone nella loro semplicità: l’unica cosa che vogliono, e che in fondo vuole ognuno di noi come essere umano, è che tu le guardi negli occhi, con rispetto e sincerità. Ho sempre percepito il massimo rispetto, da parte degli ospiti, per chi fa del suo meglio sebbene in un sistema di accoglienza esterno pieno di limiti.
Senza un gruppo coeso la Casa non funziona, a maggior ragione se non è di facile gestione già a partire dalla struttura e dai locali, come spesso accade.
Cosa significa lavorare in una casa accoglienza?
Oltre alla gestione logistica e pratica della casa, significa principalmente organizzare le scadenze principali per le persone: quelle della commissione, dei rinnovi e ritiri dei permessi, le notifiche di questura, i rapporti con gli avvocati di chi sta facendo ricorso nell’ultima fase della richiesta di protezione internazionale. Importante è la preparazione alla commissione territoriale, cioè far capire che cosa fa la commissione, come decide, da chi è composta: in questo ogni operatore segue un certo numero di persone. Poi c’è tutto l’ambito formativo, ma la più grande sfida è quella lavorativa.
Sfida per la quale serve molta motivazione.
Ci sono ragazzi che si svegliano presto per andare a lavorare, altri che non hanno lavoro ma si svegliano per cercarlo, si impegnano in corsi di formazione e di lingua; ci sono anche quelli che, per motivazioni diverse, fanno fatica a cercare; perché sono rassegnati e scoraggiati. Chiaramente il vissuto personale di ognuno è centrale per capirne il comportamento. In ogni caso comunque ho sentito tanta Dignità in tutti. Questa è una cosa che veramente, qualsiasi strada prenderò in futuro, mi porterò sempre dentro.
Da Casa Alpi mi porto dietro soprattutto il rapporto con le persone ospiti, che sono belle persone nella loro semplicità: l’unica cosa che vogliono, e che in fondo vuole ognuno di noi come essere umano, è che tu le guardi negli occhi, con rispetto e sincerità.
Cos’è la Dignità?
Una persona di una certa età ha faticato tutta la vita per costruirsi una famiglia ma poi ha dovuto lasciare il suo paese, magari da sola; arriva qui a Bolzano e si trova a vivere in comunità con decine di ragazzi di vent’anni meno di lui, condividendo con loro gli spazi e il cibo. Tu vedi che non ha niente, ma vedi anche che è una persona integra, con una propria Dignità. E questa è una cosa che spesso nei giornali e nei media si dimentica totalmente. Noi lavoriamo con Persone che vogliono essere trattate come tali, non come profughi.
Ora ha aperto Casa Druso a San Candido.
È una sfida personale, perché il periodo di apertura è durato tanto e ho acquisito delle competenze tecniche importanti. Il mio senso di responsabilità è molto alto. Le persone ospiti vengono da Bolzano, hanno vissuto a Bolzano anche per più di un anno e hanno delle grosse aspettative. Per motivi contingenti vari sono stati un po’ sfortunati e molti non hanno lavorato. Io vorrei riuscire, per quel che posso fare, ad accompagnarle a includersi nella comunità, trovando un lavoro, ma anche amici e frequentazioni esterne. Vorrei che il centro fosse un punto di partenza e non di arrivo.
Tu vedi che non ha niente, ma vedi anche che è una persona integra, con una propria Dignità. E questa è una cosa che spesso nei giornali e nei media si dimentica totalmente. Noi lavoriamo con Persone che vogliono essere trattate come tali, non come profughi.
Ci state riuscendo?
Al momento direi di sì. Le prospettive di lavoro sono buone e qualcuno ha già iniziato attività di diverso tipo. Nessuno sembra avere nostalgia di Bolzano. Questo anche grazie a un’equipe straordinaria e molto motivata, che fa questo lavoro non per lo stipendio a fine mese ma perché vuole dare il suo contributo.
Che risposte avete avuto dalla comunità di San Candido?
La comunità ha risposto molto bene. Nella prima settimana ho ricevuto una cinquantina di chiamate in un paese di 2.000 abitanti. Una solidarietà straordinaria. Abbiamo organizzato tre formazioni per aspiranti volontari e la partecipazione è stata ottima.
Come ti poni nei confronti di chi è contrario all’accoglienza?
Certo la contrarietà da parte di alcune persone c’è, non la nascondiamo ed è anche legittima. Il nostro ruolo, al di là delle macro questioni sul flusso migratorio mondiale più o meno incontrollato, è quello di non giudicare il timore delle persone, quando non deriva da una discriminazione razziale, che non è invece tollerabile. L’ansia e il timore vanno compresi e accompagnati, cercando di cambiarli in atteggiamenti positivi.
È un lavoro che coinvolge o che sconvolge?
È fondamentale mantenere un’impostazione professionale. È vero che cominci a fare questo lavoro con il cuore, però devi finire con la testa. Se ti fai prendere troppo dalle storie e dai vissuti, te le porti a casa e questo non è giusto, né per te né per le persone, perché non riesci a essere più razionale e obiettivo, diventando anche pericoloso. Noi lavoriamo sul filo della legalità e non bisogna mai dimenticarlo.
Il nostro ruolo, al di là delle macro questioni sul flusso migratorio mondiale più o meno incontrollato, è quello di non giudicare il timore delle persone, quando non deriva da una discriminazione razziale.
Un ricordo che custodisci in Volontarius?
Mi viene in mente un volontario di Casa Alpi. Ha più di 70 anni ed è instancabile. A volte mi chiedo anch’io perché lo fa, poi dopo lo capisci nei rapporti con chi sta a Casa Alpi. Gli ospiti lo rispettano, gli vogliono bene, lo abbracciano e lo trattano come un padre. Vedere l’impegno, la passione disinteressata. Questo mi motiva ad andare avanti.
In cosa possiamo migliorare?
Nel rafforzare la relazione tra le case accoglienza e i responsabili. Si stanno facendo passi avanti in questo senso e comprendo che non sia facile, vista la distanza di una casa come quella di San Candido. Ma se non vivi il contesto non capisci di cosa c’è bisogno. Bisogna anche dare atto del fatto che lavoriamo nei contesti più difficili e delicati della nostra Provincia. Comunque sia, mi piace lavorare con Volontarius perché mi dà la libertà di esprimermi, forte autonomia e possibilità di dialogo. In tanti altri ambiti ti senti un ingranaggio, qui hai la libertà di essere quello che sei e vieni accettato per questo.