Il 21 novembre 2016 il giovane Abeil, ragazzo di diciassette anni nato in Eritrea, è morto nell’estremo tentativo di saltare su un treno merci alla stazione di Bolzano.
Voleva raggiungere il Nord Europa, come vogliono molte delle persone richiedenti asilo che arrivano alle coste italiane: i dati rivelano che l’Italia è agli ultimi posti in Europa per quanto riguarda il numero di richieste d’asilo e quello di rifugiati per numero di popolazione.
Un evento che, purtroppo insieme ad altri, ha scosso e continua a scuotere i nostri animi e le nostre coscienze: la morte a Bolzano di un giovane ragazzo in fuga da una dittatura lascia un silenzio lacerante che deve invitarci a riflettere.
Terra di confine, Bolzano è toccata da anni dal fenomeno delle migrazioni, che oggi si è complicato rispetto alle logiche dell’accoglienza alla quale siamo abituati a pensare. Oggi il fenomeno delle persone profughe sulla strada riguarda chi ha ottenuto l’accoglienza ma non trova possibilità concrete per sé, chi sfugge ai controlli e muove autonomamente nel paese, chi aspetta di accedere al circuito dell’accoglienza locale.
La morte a Bolzano di un giovane ragazzo in fuga da una dittatura lascia un silenzio lacerante che deve invitarci a riflettere.
Occorre per questo ripensare l’approccio che stiamo avendo nei confronti delle persone che, a forza di essere escluse, vanno a riempire sempre più le sacche di povertà e disagio della nostra comunità. Un rischio per le persone stesse, sempre più in condizioni di emarginazione sociale, ma anche per la comunità, che vede minata la sua sicurezza sociale: il popolo degli invisibili delle persone che vivono sulla strada sappiamo essere un insieme di persone che vengono difficilmente ascoltate e delle quali si sente parlare solo quando succede qualcosa di negativo.
Occorre ripensare l’approccio nei confronti delle persone che, a forza di essere escluse, vanno a riempire sempre più le sacche di povertà e disagio della nostra comunità.
Ripensare il nostro approccio significa dare una risposta, diversificata e individualizzata a ogni singola situazione. Già avviene, ma serve ora unire le forze e trovare una linea comune con chi, nel sociale, lavora da tempo: istituzioni, enti o associazioni. Da soli non si va da nessuna parte; è una battaglia che stiamo combattendo da tempo.
L’accoglienza non si risolve nell’intervento di assistenza, ma nell’instaurare un approccio umano che va studiato, sperimentato e messo in pratica. Conquistare la fiducia di una persona che arriva autonomamente a Bolzano ed è diretta verso nord, soprattutto se è giovane, sappiamo essere difficile e per impararlo abbiamo avuto bisogno dell’esperienza di moltissimi volontari che si sono messi in gioco portando se stessi sul campo.
L’accoglienza non si risolve nell’intervento di assistenza, ma nell’instaurare un approccio umano che va studiato e sperimentato
Abeil oggi avrebbe 18 anni. Il dramma di Abeil è una storia che non dobbiamo permetterci di dimenticare e deve anzi essere monito per riflettere sul valore e l’importanza della nostra presenza, professionale e umana, sul territorio.