Nejat è un giovane ragazzo timido ma molto solare. Nato in Eritrea, vive a Bolzano da qualche anno, dove è arrivato come minore e ha imparato bene l’italiano.
Chi è Nejat?
Mi chiamo Nejat e ho 20 anni. Sono in Italia da tre anni e vengo da Asmara, la capitale dell’Eritrea. Ho vissuto poco ad Asmara perché mia mamma mi ha portato subito in Etiopia [i due paesi fino al 1991 erano uniti, ndr], dove aveva la famiglia. Sono cresciuto con mia nonna a Gondar, in Etiopia. Mia nonna si chiama Merlin ed è bellissima, ha fatto tanto per me. Mia mamma quando avevo undici anni si è spostata in Sudan per trovare lavoro, mio padre, che fa il militare ed è sempre in giro, lo sentivo poco.
Come si vive in Eritrea?
In Eritrea c’è una dittatura ed è molto pericolosa. Io non so dire molto perché ho solo sentito dire qualcosa, non ho ricordi.
Perché hai lasciato l’Etiopia?
Siccome non avevo i miei documenti etiopi e siccome nonna era povera, a un certo punto mi ha detto di andare in Sudan dalla mamma, che quando la chiamavo piangeva e voleva vedermi. Sono partito e sono rimasto due mesi al confine con il Sudan. Dormivo fuori. Poi ho conosciuto Nassar, un sudanese, che mi ha aiutato a entrare in Sudan. Lì ho vissuto un paio d’anni e ho scoperto che mia madre viveva in Sud Sudan. Non sono riuscito a raggiungerla.
In Eritrea c’è una dittatura ed è molto pericolosa. Io non so dire molto perché ho solo sentito dire qualcosa, non ho ricordi.
Con chi hai vissuto in Sudan?
Ho vissuto a Khartum con Nassar, che aveva trovato lavoro. L’affitto però era carissimo, così mi sono spostato in montagna con altri giovani eritrei ed etiopi. Abbiamo cominciato a vivere in un appartamento, eravamo in tanti. Ho trovato qualche lavoro e un giorno mi hanno chiamato i miei amici per dirmi che a casa era passata la polizia e, siccome nessuno aveva i documenti, hanno portato molti di loro in galera. Allora sono scappato, eravamo in dodici e ci siamo diretti in Libia.
Quanti anni avevi?
Avevo tredici, quattordici anni.
Un giorno mi hanno chiamato i miei amici per dirmi che a casa era passata la polizia e, siccome nessuno aveva i documenti, hanno portato molti di loro in galera.
Come siete arrivati in Libia?
Abbiamo attraversato il Sarah in un piccolo furgone, che abbiamo pagato. Ma eravamo tantissimi, da tanti paesi. Mamma mia… eravamo sessanta su una macchina, eravamo davvero tanti. Non riuscivo neanche a sedermi e cercavo di non cadere sugli altri.
Quanto è durato il viaggio?
Il viaggio è durato tanto, giorni… otto forse.
Avevi da mangiare?
Avevo una bottiglia d’acqua e dei biscotti. È stato difficile.
Poi cos’è successo?
A trenta chilometri da Tripoli la polizia ci ha fermati e ci ha portati in galera perché non avevamo documenti. Sono rimasto in galera per dieci mesi e fuori c’era già la guerra, si sentivano i colpi di arma da fuoco. «Se scappi ti uccidono», mi dicevano, ma quella non era vita: ricevevo alle sette di mattina un panino con mezzo litro d’acqua. Poi si aspettava fino a sera per mangiare di nuovo. E le guardie picchiavano.
Cosa pensavi in quel periodo della tua vita?
Pensavo di morire. Pensavo che sono morto. Non pensavo all’Italia, ma volevo scappare. Mi sono detto che sarei morto in ogni caso e mi sono unito a un gruppo. Ce l’abbiamo fatta. Ho camminato per due giorni a Tripoli insieme a Elias, un ragazzo che avevo conosciuto. Non sapevo cosa fare, ma lui conosceva una persona che ci ha proposto di prendere la barca per andarcene. Siamo stati in un campo e lei ci ha chiesto duemila dollari per partire. Mi hanno aiutato con i soldi e così ho preso la barca.
«Se scappi ti uccidono», mi dicevano, ma quella non era vita.
Cosa ricordi del viaggio in mare?
È durato per tre giorni, ma non ricordo molto. Ero su un gommone ed eravamo in 97 persone. Era tutto pieno. I maschi stavano in fondo, le donne erano sedute meglio. Facevo fatica a muovermi e avevo male. A un certo punto era finita la benzina e credevo tutto finito. Un eritreo guidava la barca, era molto bravo ma non sapeva dove andare e quando è finita la benzina aveva paura che gli altri lo incolpassero e buttassero in mare. Quando siamo arrivati in Sicilia mi hanno in un grande ospedale. Ricordo tanta polizia, ovunque. E ho perso di vista anche il mio amico Elias.
Un eritreo guidava la barca, era molto bravo ma non sapeva dove andare e quando è finita la benzina aveva paura che gli altri lo incolpassero e buttassero in mare.
Il tuo primo impatto con Bolzano.
Sono finito prima in ospedale perché stavo poco bene, poi al Focolare e poi a Casa Rossa. Con il tempo mi sono sentito meglio. A Casa Rossa è andata bene. Ho conosciuto tante persone, Simone è bravissimo, anche Anastasia, tutti. E poi ho conosciuto tanti nuovi amici. Quando ho compiuto 18 anni mi sono trasferito a Merano, ho iniziato la scuola professionale per diventare elettricista ma non sono riuscito a finirla perché dovevo pagare l’affitto.
E oggi?
Oggi sono cresciuto, l’anno scorso ho fatto servizio civile con Volontarius e sono contento. Ho lavorato a Casa Einaudi, dove ho aiutato persone che hanno vissuto la mia stessa storia. Le vedevo come me, perché io ho vissuto la loro storia.
Cosa hai letto nei loro occhi?
Io ho visto persone felici, ma anche quando sono tristi cerco di essere felice per farle stare bene.
Ho lavorato a Casa Einaudi, dove ho aiutato persone che hanno vissuto la mia stessa storia. Anche quando sono tristi, cerco di essere felice per farle stare bene.
E se i tuoi occhi li chiudi… come vedi il tuo futuro?
In futuro troverò lavoro, porterò qui mia mamma, vivrò con lei. Lo vorrei tantissimo, perché mi manca tantissimo. La sento una volta al mese e lei piange sempre. Sento anche la nonna, che mi chiede se sto bene e mi dice «Sempre avanti!». Mio padre aspetto che chiami lui, perché è spesso in giro e quindi mi chiama solo quando si ferma.