Pensieri al Volo

Volontarius Onlus, Bolzano

Vite sfiorate.

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Giovanna Mengarda è una donna che insegna al liceo Carducci di Bolzano. La incontriamo per parlare di Elisabeth, che dopo dieci anni di vita sulla strada è morta sotto ponte Talvera, dove dormiva (leggi anche qui). E quello che cerchiamo è un dialogo schietto, dove a emergere siano i pensieri e le contraddizioni dell’essere umano.

Partiamo dall’inizio: i primi ricordi che hai di Elisabeth.

I primi ricordi sono legati molto anche ai ricordi che ho del mio primo figlio quando andava all’asilo, alla fine degli anni Novanta, perché Elisabeth la incontravo sempre passando sulle passeggiate per andare a casa. La incrociavamo seduta sulla sua panchina, vicino alla zona del Bar Luce. Quando vedeva arrivare qualcuno, in genere si alzava per andare a chiedere una sigaretta o qualche moneta. Mio figlio aveva paura e si nascondeva dietro di me, perché era grande e corpulenta. Poi cercavo di fargli capire che era una persona assolutamente pacifica e tranquilla.

E di cosa parlavate quando vi incontravate?

In realtà non si può dire che parlassimo, nel senso che ci dicevamo cose comunque molto brevi e sfuggenti. Non mi sono mai fermata più di tanto. Però mi interrogavo sulla sua vita e su cosa l’avesse portata ad arrivare a quella scelta così radicale.

Hai mai provato a immaginare?

Sì, io in lei ho sempre immaginato qualche situazione di violenza, uno shock forte. So che negli anni passati la famiglia aveva in qualche modo tentato di riportarla a casa ma lei si era sempre rifiutata. Quindi da quello mi ero immaginata che potesse esserci stato qualche trauma in età molto giovane…

E con tuo figlio, invece, quando è cresciuto sei tornata sull’argomento?

Sì, aveva perso ormai la paura, anche se non gli è mai venuta la curiosità di avvicinarsi. Penso che poi a quell’età, parlo di quando andava alla scuola media, non ci sia tanto un naturale desiderio di entrare in contatto con persone in apparenza diverse. In effetti anche questo, mi ricordo, mi ha fatto capire che l’istinto è evitare, nella relazione, persone che percepiamo diverse. E poi invece c’è un’educazione che insegna ad avvicinarci.

E quest’educazione, secondo te che sei professoressa, da dove deriva?

Dal fatto di riuscire a sperimentare questi rapporti al di là di discorsi teorici sul sentimento dell’altruismo… io non credo molto in questo: parlare in astratto dell’essere caritatevoli lascia il tempo che trova. Penso che una persona come Elisabeth sia l’occasione per conoscere concretamente qualcuno, attraverso un percorso lungo e difficile, riuscendo ad andare al di là dell’esteriorità che fa sì che una persona ci appaia come una persona estranea, esclusa dalla vita sociale.

In effetti anche questo, mi ricordo, mi ha fatto capire che l’istinto è evitare, nella relazione, persone che percepiamo diverse. E poi invece c’è un’educazione che insegna ad avvicinarci.

Dopo questi primi incontri, hai continuato a, diciamo, frequentare Elisabeth?

Più che altro mi ricordo che ha avuto una fase in cui alcuni giorni ci andava e alcuni no. E poi proprio non l’ho più vista. Però anche lì l’idea che potesse essere, per esempio, morta, non mi ha spinta più di tanto a fare delle ricerche, a capire dove fosse andata. Questo mi ha fatto molto riflettere su come sfioriamo le vite degli altri senza in realtà fermarci più di tanto.

Questo non fermarsi da cosa deriva secondo lei?

Penso ci possano essere motivi molto concreti che fanno sì che noi viviamo spesso su binari molto rigidi con i minuti contati, con delle abitudini giornaliere che rispettiamo in modo sempre più preciso, e questo tipo di persona diventa una sorta di intromissione in uno schema molto rigido che noi per pigrizia e per automatismo non interrompiamo. Poi è chiaro che con una persona come Elisabeth bisogna avere una grande energia psichica ed emotiva, perché iniziare una relazione necessita un investimento di energie, un investimento emotivo e la ricerca di un linguaggio particolare.

Però anche lì l’idea che potesse essere, per esempio, morta, non mi ha spinta più di tanto a fare delle ricerche, a capire dove fosse realmente andata questa persona. Questo mi ha fatto molto riflettere su come sfioriamo le vite degli altri senza in realtà fermarci più di tanto.

Sei andata anche al cimitero a trovarla. Che impressione hai avuto?

Un’impressione molto forte perché quella immagine molto antica di una ragazza con i capelli lunghi, lisci, un bel viso si è sovrapposta a quella di lei. Ed è stato un corto circuito emotivo forte, ma d’altra parte era anche prevedibile che fosse così. Dopotutto lei ha avuto un’infanzia, ha avuto una giovinezza, non è stata sempre così. Quindi lo stupore ha lasciato il posto a un pensiero come dire ”in fondo l’ho sempre saputo che era così”.

Le persone che vivono sulla strada, secondo te, possono finirci per scelta – e quindi questa situazione diventa da rispettare e salvaguardare – o la comunità dovrebbe sempre orientarsi per aiutarle?

Questo è un tema molto delicato. Ogni persona è un unicum, quindi anche dire che cosa la società debba fare mi sembra impossibile. Forse il segreto è non abbandonare queste persone, cercare di evitare il fatto che vengano percepite come qualcosa che umano non è più, e continuare a creare situazioni dove la loro umanità venga ribadita. È importante anche capire quali persone hanno la voglia di ricominciare. Non mi sembra fosse il caso di Elisabeth: da quel che so lei rifiutava ogni genere d’aiuto e ogni tipo di struttura. Ecco allora è giusto accompagnarla nel suo percorso di vita, ma evitando di agire per il bene imponendo un bene.

Lei ha seguito con una classe un progetto sulle persone di strada. Secondo lei che ruolo ha la scuola nel costruire un approccio con queste persone?

L’esperienza mi ha dato la conferma che bisogna crescere facendo esperienze reali e uscendo dal pregiudizio che le persone di strada siano considerate una categoria. La scuola può abituare a non aver paura e a confrontarsi con un’umanità diversa da quella standard, con la quale quindi serve investire di più. La scuola può dare tanti strumenti espressivi e di relazione, cose che mancano molto oggi. Noi non possiamo crescere con l’aspettativa di costruirci un futuro in funzione di noi stessi. Quindi certificazioni, test di tutti i tipi, tutto questo rimane lettera morta se quello che costruisco per me stesso non è qualcosa che mi permette di relazionarmi con gli altri.

La scuola può abituare a non aver paura e a confrontarsi con un’umanità diversa da quella standard, con la quale quindi serve investire di più.

Perché oggi ci mancano gli strumenti per costruire delle relazioni?

Ci sono credo tanti motivi. Le strutture urbane nelle quali i tempi sono molto più veloci: la nostra vita è fatta tutta di incastri, la gestione della famiglia è diventata molto più complicata, non c’è più una gestione comunitaria come poteva esserci quando la realtà quotidiana era compresa in spazi più ristretti. Inoltre viviamo una realtà economica molto in crisi, in cui le persone credono che per riuscire a sopravvivere debbano affilare le armi e mettersi contro tutti. Spero che riusciremo a capire che la crisi può essere affrontata insieme. Se lo capiremo, forse le cose cominceranno a cambiare.

Autore: Luca De Marchi

Classe '95, studia lettere all’università di Trento e collabora da diverso tempo con Volontarius nel raccontare la vita dell’associazione e quella delle persone che, ai margini della società, spesso vengono ignorate; ne porta inoltre testimonianza alla società attraverso i media e gli incontri con i ragazzi nelle scuole e in altri gruppi.

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